Giacomo Stucchi - Senatore Lega Nord Padania -

PENSIERI E IMMAGINI: vi presento il mio blog. Un modo per tenermi in contatto con gli elettori, con gli amici e con tutti coloro che, anche con opinioni diverse dalle mie, desiderano lasciare un loro commento. Grazie.

martedì, ottobre 30, 2007

Cronaca di una crisi annunciata

di Giacomo Stucchi

L’ora “X” sta per scoccare. La ripresa dei lavori parlamentari sulla Finanziaria al Senato (ovvero in quell’aula dove ogni votazione è diventata uno scontro al calor bianco), potrebbe segnare uno spartiacque in questa tormentata legislatura. Il Presidente del Consiglio spera che la paura di andare al voto, da parte di molte componenti dell’Unione, costituisca ancora una volta il miglior deterrente contro il disfacimento della maggioranza, mentre la Lega Nord e tutta la Cdl auspicano di essere davvero alla vigilia della resa dei conti tra le diverse anime della maggioranza che, accortesi di non poter più andare avanti, preferirebbero, a questo punto, sciogliere le fila e andare ognuno per la propria strada. L’attaccamento alle poltrone, così come la consapevolezza di doverle quasi certamente lasciare, in caso di consultazioni elettorali anticipate, sino ad oggi ha fatto si che le minacce di crisi, soprattutto da parte di Mastella e Di Pietro, rientrassero puntualmente tutte le volte che il “gioco si fa duro”. L’impressione è che, tra i due ministri, i “conti” non siano ancora stati regolati, ma (dal loro punto di vista) potrebbero esserci ancora modi e tempi di farlo in futuro, senza dover necessariamente mandare a casa Prodi. Anzi, è ormai chiaro che il ruolo di Don Chisciotte, che il ministro delle Infrastrutture si è ritagliato all’interno del centrosinistra, gli consente di avere più consensi, in termini elettorali, di quanti non ne avrebbe con un appoggio chiaro e senza equivoci al Professore. Ecco perché è improbabile, nell’immediato futuro, un cambiamento di strategia da parte dell’ex magistrato. Il discorso è invece molto diverso per quella pattuglia di senatori che fa capo a Lamberto Dini. Questi hanno mandato innumerevoli segnali alla maggioranza, e non certo di fedeltà. L’ultimo, in ordine di tempo, è stato l’aver disertato, lo scorso fine settimana, il vertice dell’Unione al Senato, nel quale i gruppi parlamentari del centrosinistra avrebbero dovuto adottare strategie per arginare, o almeno contenere, la cosiddetta “spallata” al Governo che, per la verità, è stata sin troppo annunciata. Questo atteggiamento o prelude al distacco definitivo dalla maggioranza di Dini e dei suoi amici, che potrebbe avvenire proprio in occasione di una delle votazioni sulla Finanziaria a Palazzo Madama, il che significherebbe la fine del governo Prodi, e fors’anche della legislatura, oppure si tratta di un espediente per alzare la posta su qualche richiesta, della quale naturalmente non ci è dato sapere i particolari. In quest’ultimo caso Prodi potrebbe restare ancora “a galla” con tutte le disastrose conseguenze che questo comporterebbe. Se, viceversa, Dini facesse sul serio, il Governo potrebbe davvero essere battuto al Senato e ciò aprirebbe inevitabilmente la strada alla crisi. Certo, a quel punto la battaglia non sarebbe ancora vinta, perché, prima di poter dare la parola agli elettori, bisognerebbe vincere tutte quelle resistenze al voto anticipato che attualmente esistono, ma anche esaurire tutte le prassi costituzionali che precedono lo scioglimento anticipato delle Camere. Tuttavia è probabile che caduto Prodi la strada per le elezioni diventi tutta in discesa. Un’ipotesi che potrebbe, come si fa notare da più parti, non dispiacere al neo segretario del Partito Democratico. Si dice, infatti, che Veltroni sia convinto di potere recuperare in campagna elettorale l’ampio margine che attualmente lo separa dal leader dell’opposizione Berlusconi. Vera o falsa che sia questa supposizione, il fatto certo è che il ritorno alle urne sarebbe l’unica strada per riportare la politica e le istituzioni nell’alveo della democrazia. La stragrande maggioranza dei cittadini vuole andare a votare e tutti i sondaggi lo confermano. Ecco perché, dinanzi a questa richiesta, che diventa sempre più un plebiscito, alla fine è possibile che qualcuno a breve “stacchi la spina”.

giovedì, ottobre 25, 2007

I danni irreparabili del governo Prodi

di Giacomo Stucchi

Premesso che è impossibile fare previsioni su cosa accadrà nell’immediato futuro, in particolare al Senato dove il Governo gioca coi numeri in una sorta di continua roulette russa, è sicuramente un dovere dei dirigenti dell’Unione riflettere sui danni irreparabili che la maggioranza di centrosinistra sta provocando alle istituzioni. Se a Palazzo Madama il Governo cadrà sulla Finanziaria, oltre a quel provvedimento saranno carta straccia anche tutti i suoi collegati, in primis il protocollo sul Welfare. Con il risultato, tra l’altro, che a milioni di lavoratori, che hanno espresso con il voto la loro opinione (favorevole o contraria non importa) sull’accordo tra Governo e i sindacati, nessuno chiederà nemmeno scusa per il disturbo provocato. Il Governo Prodi, pur sapendo di non avere i numeri al Senato, ma anche di non avere una maggioranza coesa a sostenere la sua politica, si è fatto beffa degli uomini e delle donne che sono andate a votare, facendo credere loro di essere nelle condizioni di mantenere degli impegni. In realtà, la debolezza del Governo (e la sua conseguente incapacità ad assumere degli impegni di qualsiasi natura e portata), è stata palese sin dall’aprile del 2006. Se allora era facile prevedere la breve vita di questo Governo, un po’ meno lo era immaginare sino a che punto i ministri di Prodi avrebbero messo a dura prova le istituzioni e la pazienza dei cittadini. Basti pensare ai problemi sul fronte della giustizia, ma soprattutto ai rapporti tra questa e la politica. Comunque vada a finire la vicenda dell’indagine del PM De Magistris, questa in futuro peserà come un macigno. Un ministro della Giustizia che rimuove, sia pur utilizzando gli strumenti che la legge gli consente, un magistrato che sta indagando su di lui e sul Presidente del Consiglio, compie una scelta politicamente pesante. Non oso nemmeno immaginare peraltro cosa sarebbe accaduto se una cosa del genere l’avesse fatta l’ex Ministro Castelli durante il Governo Berlusconi: schiere di esponenti dell’opposizione avrebbero dato l’assalto al ministero di via Arenula e i fantocci col viso di Berlusconi sarebbero stati bruciati per le strade delle città. Tornando ai danni irreparabili che l’Unione sta facendo alle istituzioni, che dire poi dei rapporti tra il Governo e le istituzioni locali? Basti pensare al dietrofront dell’esecutivo sul cosiddetto pacchetto sicurezza. Prima si è sbandierato ai quattro venti l’importanza del ruolo dei Sindaci (che avendo, a livello locale, più di ogni altra istituzione il polso della situazione sono pienamente legittimati ad avanzare proposte ed adottare provvedimenti in materia di sicurezza), poi però in Consiglio dei Ministri si è pensato bene di rimandare l’approvazione dei provvedimenti, alcuni dei quali suggeriti dagli stessi primi cittadini. Alla faccia dei problemi sulla sicurezza, tutto è stato rinviato a causa delle solite risse da pollaio tra i ministri i quali, da un lato, fanno finta di ascoltare le grida di allarme e di preoccupazione che salgono da tutte le parti, e che spingono sempre più cittadini pacifici a chiedere interventi decisi perché minacciati nella loro sicurezza, ma, dall’altro, se ne infischiano di adottare le misure che la situazione richiederebbe, preferendo invece continuare a discutere del niente. Come non ricordare, infine, altre due vicende eclatanti: la prima, relativa al trasferimento degli ufficiali della Guardia di Finanza e al siluramento del generale Speciale; la seconda inerente il piano di dismissione Telecom, che Prodi negò di conoscere nonostante fosse stato preparato dal suo consigliere e amico Angelo Rovati. In entrambi casi, al di là della verità dei fatti (peraltro non ancora chiariti sino in fondo), ad essere compromessa è stata la credibilità delle istituzioni e le conseguenze di comportamenti istituzionali quanto meno improvvidi sono state scaricate su dei capri espiatori.
Tratto da LA PADANIA del 25 ottobre 2007

mercoledì, ottobre 24, 2007

Chi governa a Palazzo Chigi?

di Giacomo Stucchi

Bene, bravi. Prendiamo per buoni i dati dichiarati sull’affluenza di cittadini alle primarie per l’elezione del segretario del Partito Democratico e ci complimentiamo con l’eletto per il consenso ottenuto. Detto questo, siamo punto e capo. Nel senso che il voto del 14 ottobre, al momento, non risolve nessuno dei problemi attualmente sul tappeto, anzi complica le cose. Ne è una prova il frettoloso rientro del presidente del Consiglio a Roma, domenica scorsa, quando è parso evidente a tutti la preoccupazione di Prodi di stare accanto al neo segretario per “comunicare” al pubblico la piena sintonia tra i due. Entrambi, nel rilasciare interviste agli ossequiosi giornalisti della televisione pubblica, nonostante la diplomazia di rito e le promesse a non pestarsi i piedi l’un l’altro, hanno però dato l’idea di che cosa ci aspetta nei prossimi gironi: un susseguirsi di prese di posizione dei due che presumilbilmnete rivendicheranno l’uno il ruolo di segretario del più grande partito della coalizione, l’altro, quello di Presidente del Consiglio. Come chiamare questa situazione? Coabitazione, tandem, dualismo, connivenza? Qualsiasi parola si possa usare, la sostanza è che il centrosinistra, con la nascita del Partito Democratico, potrebbe aver dato una mano a semplificare il quadro politico (il condizionale è comunque d’obbligo, considerate le defezioni che hanno accompagnato la fase di gestazione del nuovo schieramento e il conseguente proliferare di gruppi), ma è anche stato in grado di cacciarsi in un pasticcio che non ha precedenti nella storia repubblicana e non ha eguali nelle democrazie occidentali. A cosa alludo è facile intuirlo: il segretario del più grande partito della maggioranza di governo, oltre a non ricoprire l’incarico di presidente del Consiglio, si comporta, almeno dalle dichiarazione sin qui rilasciate, come se a Palazzo Chigi ci fosse ancora Silvio Berlusconi. In altre parole, Veltroni promette ai suoi elettori un nuovo slancio, soprattutto sul fronte delle riforme e della diminuzione delle tasse, ma dimentica che sino ad oggi chi non ha fatto nulla su questo fronte è stato proprio il Governo che lui sostiene. Il segretario e il presidente del Consiglio, per quanto facciano intendere alla gente di essere in sintonia, stanno dando vita ad un gigantesco equivoco che non farà altro che complicare l’azione di Governo. Ecco perché, anziché sproloquiare sulla necessità delle riforma del bicameralismo perfetto o dei poteri di revoca dei ministri al presidente del Consiglio (tutte cose che erano previste nella riforma costituzionale voluta dalla Lega Nord ma che è stata bocciata dal referendum, poco più di un anno fa, grazie anche alla propaganda di demonizzazione fatta dal centrosinistra) Prodi e Veltroni dovrebbero rispondere ad una sola domanda: chi detta l’agenda politica del Governo? Si tratta di una risposta che i due farebbero bene a dare in fretta. Se guardiamo, infatti, alle scadenze parlamentari che aspettano esecutivo e Pd in Parlamento (dalla sicurezza al welfare, dalla Finanziaria alle riforme), e alle divisioni che sino ad oggi hanno caratterizzato le diverse componenti della coalizione di centrosinistra, i cittadini non possono che aspettarsi il peggio. “Vi stupiremo con il nostro modo di fare politica”, ha detto, tra l’altro, il neosegretario nella sua prima conferenza stampa, e c’è da tremare alla sola idea di che cosa possa significare una simile affermazione. A giudicare da come sono andate le cose tra Ulivo e sinistra radicale, nei primi diciotto mesi di legislatura, non c’è motivo di credere che un partito, nuovo nel nome ma non nella sostanza, possa invertire radicalmente la rotta. E allora, che cosa aspettarci nell’immediato futuro? A naso direi, né più né meno del film già visto in questi mesi: un estenuante e sterile braccio di ferro tra la sinistra radicale e il neo Partito Democratico.
Tratto da LA PADANIA del 24 ottobre 2007

martedì, ottobre 23, 2007

Governo in corto circuito

di Giacomo Stucchi

E’ un indecoroso scarica barile quello che le forze politiche dell’Unione hanno posto in essere ormai da qualche tempo. Incuranti dei problemi dei cittadini, ciò che interessa ai compagni di cordata del Presidente del Consiglio è solo non staccare per ultimi la spina al Governo per evitare, in un secondo momento, di doverne pagare le spese alle elezioni politiche che inevitabilmente seguirebbero la caduta di Prodi. Infatti, sino a questo momento, almeno su una cosa il centrosinistra pare concordare: fatto cadere il Professore non rimane spazio per governi tecnici ma si spalancano le porte della consultazione elettorale. Seppur, in caso di crisi, l’ultima parola sullo scioglimento del Parlamento spetta al Presidente della Repubblica, la volontà di andare alle urne è stata così decisamente dichiarata e annunciata, da Pecoraro Scanio a Giordano, da Fassino allo stesso Romano Prodi, che rimangiarsela sembrerebbe un’ operazione ardita. Io non so se Berlusconi abbia tutti gli assi in mano e se aspetti solo il momento giusto per calarli sul tavolo, ho l’impressione però che l’attuale Governo sia talmente instabile che potrebbe cadere da un momento all’altro per implosione. Nel frattempo continuiamo ad assistere all’assedio di Palazzo Chigi sia da parte dell’opposizione, sia da parte di alcuni esponenti di peso della maggioranza stessa: l’opposizione attacca soprattutto la Finanziaria; mentre nella maggioranza si evidenziano gli esponenti della sinistra radicale, che non hanno voluto rinunciare a scendere in piazza, e i Ministri Di Pietro e Mastella che hanno assunto posizioni tali da evidenziare contrasti che parrebbero non più colmabili. L’ex magistrato, ora Ministro per le Infrastrutture, Di Pietro, il cui comportamento definimmo “bicefalo” già nell’estate del 2006, avendo probabilmente intuito da subito che con il Professore non sarebbe andato lontano, ha sempre dato un colpo al cerchio(criticando buona parte dei provvedimenti approvati dal Governo del quale fa parte e presentando, da ultimo, la bellezza di 150 emendamenti alla legge finanziaria) e un altro alla botte, “promettendo” sempre lealtà a Prodi e guardandosi bene dal fargli mancare l’appoggio in Parlamento. Il risultato è stato che il Ministro ha potuto godere di un duplice vantaggio: conservare il più a lungo possibile la poltrona ma anche condividere le proteste della piazza. Ora però siamo all’ultimo giro di giostra e allora Di Pietro, che si vanta di aver combattuto in tribunale la Prima Repubblica, ma pare averne mutuato il costume del doppiogiochismo politico, deve dire con certezza da che parte sta. Così come deve farlo una volta per tutte il Ministro Mastella che a volte sembra cedere alle lusinghe dei centristi per un ritorno alla casa madre ma poi preferisce tenersi ben stretto l’attuale incarico governativo e tirare a campare. Adesso però, con l’inchiesta del pm Luigi de Magistris in corso, avocata dal Procuratore generale di Catanzaro, che vedrebbe tra l’altro iscritti sul registro degli indagati lo stesso Mastella e il Presidente del Consiglio, anche per il segretario dell’Udeur è arrivato il momento della verità. Di Pietro lo accusa di “una intempestiva ed inopportuna azione disciplinare nei confronti del magistrato de Magistris, causa di un cortocircuito politico giudiziario che ora rischia di travolgere l’intero Governo”. A noi però pare che il Governo Prodi abbia fatto “corto circuito” già da parecchio tempo e il fatto che sia spesso oggetto di forti critiche da parte dei suoi stessi membri e che due ministri, Mastella e Di Pietro, nell’intento di neutralizzarsi a vicenda, promettono addirittura di sfiduciarsi l’uno l’altro, non può che esserne un’ ulteriore e più tangibile conferma.

venerdì, ottobre 12, 2007

Perché Prodi non ha vinto sul welfare

di Giacomo Stucchi

Il fatto che l’accordo sul welfare sia stato approvato dalla maggioranza dei lavoratori non significa, come dalle parti di Palazzo Chigi si vorrebbe far credere, che il Governo si sia rafforzato. In primo luogo, perché il numero di persone che hanno votato (seguendo peraltro una prassi consolidata nella nostra democrazia) non coincide con il corpo elettorale di una consultazione di tipo politico, rimanendone di gran lunga inferiore; in secondo luogo, perché il protocollo stipulato tra il Governo in carica e i sindacati (ad eccezione di una componente schieratasi per il “no”), dopo il Consiglio dei ministri, prima o poi dovrà arrivare in Parlamento. Sarà in quella sede che si giocherà la vera partita tra le diverse anime che compongono, e agitano di continuo, la coalizione del centrosinistra: un’arena ove, sino ad oggi, hanno coabitato le componenti più liberali (che giudicano il protocollo come il massimo della concessione possibile, soprattutto sul fronte della previdenza) e quelle della sinistra radicale (che invece vorrebbero sostanziali modifiche, soprattutto in materia di contratti di lavoro a termine e di revisione dei coefficienti pensionistici).
Per restare a galla il Governo dovrà invece disporre di una maggioranza che approvi il protocollo così com’è, senza che una sola virgola venga cambiata; altrimenti si darebbe di nuovo corso alla concertazione con i sindacati e a tutto quello che ne consegue. Del resto, gli stessi leader sindacali, ma anche altre rappresentanze (come la Confindustria), hanno già avvertito che solo gli originari contraenti possono mettere mano ad eventuali modifiche al protocollo.
Ecco perchè chi in queste ore blatera di una vittoria di Prodi sul welfare, dovrebbe invece tacere. Tanto più se si considera che il destino parlamentare di questo provvedimento si intreccia inevitabilmente con quello politico del nascente Partito Democratico.
Il suo leader in pectore, Walter Veltroni, forse pensando agli effetti delle sue dichiarazioni nel breve periodo, negli ultimi tempi non è certo stato tenero con le iniziative del Governo, soprattutto quelle economiche. Anzi, unendosi al coro di critiche internazionali (in primis quelle del commissario europeo Almunia, che in sostanza ha rimproverato al presidente del Consiglio di non essere efficace sul fronte del risanamento) e poi a quelle di casa nostra (con la reprimenda del governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, che intervenendo al Senato sulla legge Finanziaria ha detto, tra l’altro, che “la manovra non frena la spesa”, ma la “aumenta”; che sui conti sono stati fatti solo “progressi modesti” nonostante la “pressione fiscale rimanga a livelli elevati”; che la riduzione dell’Ici nella manovra “non appare coerente con l’obiettivo di rafforzare l’autonomia tributaria degli enti territoriali”), Veltroni lascia pochissime speranze di sopravvivenza al Governo.
Inoltre, l’adesione del Sindaco di Roma alla proposta della capogruppo dell’Ulivo al Senato, Anna Finocchiaro, di azzerare gli incarichi di ministri e sottosegretari, subito dopo la nascita del Pd, la dice lunga su quanto questo Governo sia ormai indigesto allo stesso centrosinistra.
Tutto questo alla faccia delle mille dichiarazioni dei “padri fondatori” del Partito Democratico, che hanno sempre detto che la nascita del nuovo soggetto politico non avrebbe in alcun modo costituito un ostacolo alla stabilità dell’esecutivo. A breve, quindi, tutti i nodi verranno al pettine e si capirà sino a che punto la variegata galassia del centrosinistra, che da un anno e mezzo si è trincerata dentro il Palazzo, è disposta a trascinare cittadini e istituzioni nel baratro. Per quanto ci riguarda il fondo del barile è già stato raschiato da tempo, per cui sarebbe meglio se il “nuovo” partito guidato da Veltroni, come primo atto tangibile della sua volontà innovatrice, togliesse la fiducia a Prodi e accettasse serenamente nuove elezioni politiche.
Tratto da LA PADANIA del 12 ottobre 2007

mercoledì, ottobre 10, 2007

Federalismo, proviamole tutte!

di Giacomo Stucchi

Sui temi all’ordine del giorno dell’agenda politica del Governo c’è ormai tanta di quella confusione che provare a fare un po’ di chiarezza diventa davvero un impresa: riforme istituzionali, legge elettorale, accordo sul welfare, Finanziaria, sono solo alcune delle principali questioni attualmente sul tappeto. Un Governo serio, sorretto da una coalizione politica responsabile, avrebbe dovuto affrontare queste questioni con la massima cautela e senza provocare tensioni di alcun tipo; invece abbiamo una maggioranza inconcludente che, in appena diciotto mesi di governo, è riuscita a ingarbugliare tutto e a rendere impossibile la vita al cittadino. Il quale peraltro, dopo essere stato tartassato in tutti i modi, e non avere avuto in cambio un bel niente ma soltanto chiacchiere, deve anche sentirsi dire dal ministro dell’Economia, Tommaso Padoa Schioppa, che “le tasse sono belle”. Insomma, se questo atteggiamento, da parte di chi ricopre importanti ruoli istituzionali, non è follia poco ci manca. In questo contesto, che definire fuori da ogni logica è un eufemismo, proviamo a far capire almeno ciò che sta accadendo alla Camera dei Deputati, in Commissione Affari istituzionali, dove si sta esaminando la modificazione di articoli della parte seconda della Costituzione, concernenti forma del Governo, composizione e funzioni del Parlamento nonché limiti di età per l’elettorato attivo e passivo per le elezioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Ci si potrà chiedere perché i deputati della Lega Nord Padania, che ogni giorno invocano il ritorno alle urne, prendono parte a questi lavori? La risposta è molto semplice e, per quanto ci riguarda, consiste nel fatto che il federalismo è tutto ciò per cui abbiamo sempre combattuto; liberare la Padania dal centralismo romano, per permetterle di poter gestire davvero le proprie risorse, era e rimane il nostro unico obiettivo. Pertanto, se in Commissione Affari istituzionali l’Unione, forse cosciente di essere davvero all’ultima spiaggia e di avere l’ultima occasione per fare dei cambiamenti costituzionali, si dimostra disponibile a discutere ed approvare riforme per le quali il Carroccio si è sempre battuto, non solo ciò non costituisce uno scandalo ma è anche evidente come non sarà certo la Lega Nord a tirarsi indietro su certi temi, anzi per noi va benissimo andare più avanti possibile. Ecco, in sintesi, le principali riforme sulle quali si sta discutendo in Commissione: riduzione del numero dei deputati e dei senatori; differenziazioni delle funzioni della Camere, con attribuzione del potere di fiducia alla sola Camera dei deputati; semplificazione delle funzioni legislative, con il superamento del bicameralismo perfetto senza aggravamenti del procedimento legislativo; individuazione del Senato federale quale sede rappresentativa delle realtà regionali e degli enti locali, mantenendo la sua autorevolezza istituzionale; potere del presidente della Repubblica di nomina e revoca dei ministri, su proposta del Presidente del Consiglio dei ministri; previsione della facoltà per il Senato di richiamare i provvedimenti di competenza della Camera, che mantiene il voto finale, secondo le modalità previste dalla Costituzione; disciplina del ricorso ai decreti-legge; possibilità per il Governo di chiedere, secondo le modalità indicate dai regolamenti parlamentari, che un disegno di legge sia votato a data predeterminata. Sappiamo bene che queste riforme costituzionali, prima di arrivare al varo definitivo, hanno davanti mille ostacoli, primo fra tutti le endemiche divisioni nel centrosinistra, che di fatto impediscono il dialogo con un interlocutore affidabile che non cambi posizione in ogni istante, ma tuttavia non ci sentiremmo di aver fatto sino in fondo il nostro dovere se almeno non provassimo a superare queste difficoltà. In altre parole, chiarito che la via maestra rimane quella di far cadere il governo Prodi e andare al voto anticipato già nella prossima primavera, ciò non vuol dire che nel frattempo la Lega debba stare ad aspettare gli eventi e non provare invece a portare a casa quel federalismo per il quale si è sempre battuta.
Tratto da LA PADANIA del 10 ottobre 2007

mercoledì, ottobre 03, 2007

Una manovra truffaldina

di Giacomo Stucchi

Il Presidente del Consiglio e alcuni esponenti del governo, in primis quello per lo Sviluppo Economico Bersani, dichiarano in tutte le occasioni possibili che la riunione del Consiglio dei ministri durante la quale è stata approvata la legge finanziaria, si è svolta in modo “tranquillo come poche altre”. Non è difficile capire perché Prodi e compagni si sforzano di cloroformizzare la tensione che invece esiste nei Palazzi romani: si tenta in tutti i modi di sdrammatizzare una situazione pericolosa che si sta avvitando su stessa e che potrebbe avere gravissime conseguenze sul piano sociale, economico e istituzionale. Non si tratta di fare del catastrofismo a buon mercato ma di dire le cose come stanno. Sui contenuti della manovra, che il Governo si accinge a portare in Parlamento, la Padania ha cominciato a pubblicare una serie di approfondimenti tecnici che dimostrano sostanzialmente tre cose: a) con questo provvedimento il Governo incrementa la spesa pubblica, dimostrando non solo di non saperla tenere sotto controllo ma anche di non essere in grado di razionalizzarla; b) stiracchiando di qua e di là il famoso “tesoretto” che, secondo gli squilli di tromba governativi degli ultimi mesi, avrebbe dovuto essere ridistribuito ai cittadini sotto forma di sgravi, finisce in realtà col porre in essere una riduzione della pressione fiscale soltanto fittizia. Lo sgravio sull’Ici fino a duecento euro, tanto per fare esempio, che rappresenta una misura di certo condivisibile ancorché insufficiente, sarà vanificato dall’aumento della tassazione ai proprietari di immobili in virtù della prevista revisione degli estimi catastali, la cui competenza peraltro si dice dovrebbe passare ai Comuni ma con modalità ancora del tutto nebulose; c) infine, nel più classico stile dell’azione dei governi di centrosinistra, tutte improntate a rafforzare sempre più il centralismo romano, questa finanziaria (con le misure in dettaglio in essa contenute) vanifica la potestà legislativa delle Regioni e anzi la mortifica, in barba alla riforma del Titolo V della Costituzione approvata nel 2001 dal Governo Amato, e riporta lo Stato al ruolo di artefice principale della politica fiscale e tributaria dei singoli territori. Altro che federalismo, con queste misure fiscali si torna indietro almeno di un decennio e si impedisce, per i prossimi anni, di realizzare concretamente quel decentramento amministrativo con il quale, solo a parole, il Governo si riempie la bocca. Insomma, quando il nostro segretario federale Umberto Bossi, denuncia che in questo momento è a rischio la democrazia perché non si possono più fare le riforme, così come il popolo desidera, non racconta nulla di inventato. Ma c’è di più. Il Governo, infatti, con l’accordo sul welfare, attualmente al vaglio dei lavoratori con le assemblee nelle fabbriche, ha preso un impegno con le parti sociali la cui importanza, sia per la natura delle misure adottate (prime fra tutte quelle sulla previdenza), sia per l’entità dei costi (parecchi miliardi di euro nei prossimi anni), lega indissolubilmente il suo stesso destino all’approvazione del protocollo da parte dei lavoratori almeno quanto a quella della Finanziaria in Parlamento. In altre parole, in questo momento a preoccupare Prodi e i suoi ministri non è solo il dibattito parlamentare sulla manovra economica, nel quale prevedibilmente si vedranno la sinistra radicale e quella riformista recitare il gioco delle parti (più “vicina” alle istanze dei lavoratori la prima, più “attenta” alle riforme la seconda) e che alla fine potrebbe anche concludersi con un voto di fiducia (che darebbe davvero un colpo di grazia alla democrazia), ma anche l’esito del referendum sul welfare nelle fabbriche. Sul risultato delle consultazioni Palazzo Chigi ostenta ottimismo, forse rassicurato dall’azione di convincimento “a tutto spiano” sui lavoratori messa in atto della triplice sindacale; ma tutto ciò non toglie però che, qualora fossero sconfessati i punti alla base dell’accordo tra Governo e sindacati, il rischio di un corto circuito dell’intero sistema diventerebbe molto concreto.

Per Prodi la storia si ripete

di Giacomo Stucchi

In autunno cadono le foglie e, qualche volta, anche i governi. Il percorso parlamentare per l’approvazione della legge finanziaria, che comincia questa settimana al Senato, ma anche altre spinose vicende (come quella del caso Visco o l’altra su Malpensa), potrebbero finalmente far implodere la maggioranza e portare al capolinea il Governo Prodi. C’è quindi spazio per l’ottimismo. Insomma, qualora il Professore dovesse riuscire a superare le insidie minori, resterebbe comunque il pericolo rappresentato dall’approvazione della finanziaria, che si prevede già irto di ostacoli e seminato di insidie (quasi un percorso di guerra!) ad opera della sinistra radicale e dei liberal-democratici diniani. Ciò non significa, tuttavia, che alla Cdl siano concesse “distrazioni” di alcun tipo. Per far cadere il Governo Prodi, bisognerà infatti che, all’irriducibile opposizione della Lega Nord, corrisponda anche un “serrate le fila” di tutta la Cdl. Soltanto così si potrà dare lo sfratto all’inquilino di Palazzo Chigi, con qualche mese d’anticipo rispetto al decennale della sua prima rovinosa caduta. Anche nel 1998, infatti, al presidente del Consiglio Prodi accadde di essere defenestrato. Oggi la storia si ripete anche se con sfumature diverse. Se da un lato il capo dell’Esecutivo ha cercato di mettere in cassaforte i voti di Giordano e compagni, ponendo Bertinotti sullo scranno più alto di Montecitorio, dall’altro non ha tenuto in considerazione i malumori dell’elettorato della sinistra radicale, che si riconosce sempre meno nella sua rappresentanza parlamentare (a maggior ragione poi dopo la discesa in campo di Grillo), nonché “i mal di pancia” di coloro che non vedono di buon occhio la fusione di Margherita e Ds nel Partito democratico. Per non parlare poi del mancato accordo sul welfare con una parte dei sindacati, che aspettano solo l’esito del referendum nelle fabbriche per mandare definitivamente a quel paese Prodi e i suoi ministri e del malcontento dei sindaci (a maggior ragione poi se di sinistra) sul piede di guerra per gli annunci del Governo sulla riduzione dell’Ici, che sancirebbe, tra l’altro, la negazione di ogni forma di autonomia fiscale dei Comuni. E questa lista può continuare con i problemi sulla sicurezza dei cittadini, che si sono aggravati anche a seguito di sciagurati provvedimenti di clemenza approvati in questo scorcio di legislatura, o quelli dei giovani disoccupati o precari, soprattutto nella pubblica amministrazione, ai quali era stata promessa la stabilizzazione e che invece, anche a seguito della prospettata riforma della legge Biagi, rischiano di ritrovarsi con un pugno di mosche in mano. Insomma, le questioni sul tappeto costituiscono una miscela esplosiva che dovrebbe davvero far saltare in aria tutto e portare il Capo dello Stato alla conclusione che l’Unione non è in grado di governare e trarne, quindi, le dovute conseguenze. Ma il condizionale è d’obbligo perché altre volte, in questo anno e mezzo di governo Prodi, le componenti dell’Unione sembravano sul punto di rompere, ma poi l’attaccamento alle poltrone si è dimostrato uno straordinario collante, più efficace di qualsiasi affinità politica. Inoltre, i numeri parlano chiaro e dicono che, se si andasse al voto anticipato, il Partito democratico e il suo segretario in pectore Veltroni non avrebbero praticamente nessuna possibilità di vittoria. Tutti gli osservatori concordano, infatti, nel ritenere incerto soltanto l’entità della sconfitta del Pd, ma non l’esito del voto. Qualcuno dice che si tratta dell’inevitabile conseguenza per chiunque intenda governare con una coalizione che va da Di Pietro a Diliberto: concordiamo, ma aggiungiamo che ai cittadini di queste alchimie politiche non importa un fico secco. Ciò che conta è tornare a votare al più presto e, per dirla con il nostro segretario federale Umberto Bossi, “liberare” il popolo da un Governo vessatore e antidemocratico.


Tratto da LA PADANIA del 3 ottobre 2007