Giacomo Stucchi - Senatore Lega Nord Padania -

PENSIERI E IMMAGINI: vi presento il mio blog. Un modo per tenermi in contatto con gli elettori, con gli amici e con tutti coloro che, anche con opinioni diverse dalle mie, desiderano lasciare un loro commento. Grazie.

giovedì, settembre 28, 2006

PERCHE’ PRODI NON CI RAPPRESENTA

di Giacomo Stucchi

Vorrei spiegare perchè, come cittadino del Nord e come parlamentare del Carroccio, trovo molto difficile riconoscere in Romano Prodi il premier che mi rappresenta. A poco più di cinque mesi dal voto e dopo tutti i controlli e le verifiche previsti per legge, si può affermare senza paura di essere smentiti che il Professore ha potuto fare ritorno a Palazzo Chigi grazie a una risicata e incerta vittoria elettorale. So che molti osservatori, di entrambi gli schieramenti, già all’indomani del voto hanno più volte rimproverato al presidente del Consiglio uscente Silvio Berluscioni di essersi attardato troppo nel riconoscimento, peraltro mai compiuto, della vittoria prodiana; ritenendo quest’ultimo, da un lato, un passaggio scontato in una democrazia consolidata; dall’altro, un punto di partenza per riallacciare inevitabili rapporti con la nuova maggioranza. Ma la questione è che l’Unione, complice una pessima legge elettorale, non ha la legittimazione democratica dei numeri, oltre ogni ragionevole dubbio. Si tratta di un dato di fatto. Non tanto per l’esiguità dei venticinquemila voti, in democrazia infatti anche un voto determina la differenza tra maggioranza e opposizione; ma quanto perchè, come poche altre volte in passato, le ultime Politiche sono state caratterizzate da irregolarità, brogli, cattive interpretazioni dei presidenti di seggio. Eppure, in nome di questa esigua ed incerta vittoria, Prodi e l’Unione si sono accaparrati tutte le più alte cariche dello Stato; inoltre, poiché l’appetito viene mangiando e il desco del centrosinistra è molto affollato, non hanno esitato prima a moltiplicare le poltrone ministeriali e poi ad occupare tutte le altre, a cominciare dalla Rai. Ma c’è di più e aiuta a capire perché Prodi non rappresenterà mai la maggioranza degli italiani. Il nostro territorio, dalle Alpi a Lampedusa, è eterogeneo dal punto di vista economico, sociale, politico e geografico, ma una cosa lo accomuna: la radice cristiana. Ebbene, il Professore, tanto nella sua qualità di presidente della Commissione europea quanto in quella di capo dell’esecutivo, non ha mai pronunciato una parola, tanto meno compiuto un atto concreto, in difesa dì queste comuni radici cristiane. Anzi, come leader della massima istituzione europea ha fatto finta di niente quando sciagurati costituenti hanno deciso di omettere nella Carta costituzionale dell’Ue le comuni radici cristiane dei popoli d’Europa; ancora peggio ha fatto come premier, quando a New York ai giornalisti che gli chiedevano un parere sulla sicurezza del Papa, dopo le reiterare minacce provenienti da una parte del mondo islamico, ha risposto.”Non ne so proprio nulla, chiedetelo alle sue guardie”. Che equivale a dire che al presidente del Consiglio della incolumità del Pontefice non gliene può fregare di meno. Forse anche perché di lì a qualche ora il Nostro avrebbe avuto un incontro con il presidente iraniano, per una delle sue missioni impossibili, e non era nelle sue intenzioni contrariare un così autorevole interlocutore. Infine, ho difficoltà a riconoscere Prodi come premier perché, dal punto di vista squisitamente politico, continua a prendere in giro il popolo. Lo ha fatto prima e durante la campagna elettorale, quando diceva di essere a capo di una coalizione con un programma elettorale condiviso, lo fa oggi quando rivendica l’efficacia di un’azione di governo che invece, oltre a fare acqua da tutte le parti, divide in mille rivoli il già torbido fiumiciattolo dell’Unione. La verità è che l’ex presidente dell’Iri ha sempre fatto delle divisioni degli alleati il suo punto di forza; tanto che, dopo la defenestrazione del 1998, non si è nemmeno preoccupato di organizzare un partito che potesse metterlo al ripario dai ricatti degli azionisti di maggioranza della sua coalizione. “Divide et impera” è sempre stato il motto del Professore ma, dopo i continui scivoloni politici e diplomatici, i detentori della golden share dell’Unione, Fassino e Rutelli, molto presto potrebbero dargli il secondo ben servito ed avviare una nuova fase politica. Ovvero una soluzione peggiore del male che, nell’immediato futuro, potrebbe tradursi in assalti alla diligenza della finanziaria, imboscate parlamentari, regolamenti di conti politici e quant’altro una coalizione divisa e inconcludente qual è quella dell’Unione è in grado di mettere in campo. Ecco perché è quanto mai opportuno che la Cdl rinnovi e verifichi subito le ragioni di un all’alleanza, dal punto di vista della Lega Nord finalizzata alla totale e quanto più rapida attuazione del federalismo e delle altre riforme di ammodernamento dello Stato, che molto presto potrebbe essere chiamata ad assumersi nuove e importanti responsabilità.

giovedì, settembre 21, 2006

Nella Cina comunista, il Prof ha scordato cos’è la democrazia

di GIACOMO STUCCHI

Il viaggio in Cina del presidente del Consiglio, fatto anche per ricambiare ad una parte degli industriali l’aiuto elettorale dello scorso aprile, non è andato come previsto soprattutto a causa dell’inevitabile intreccio con l’affaire del piano Rovati. Sul piano economico, al di là dei discorsi ufficiali sulla disponibilità dei cinesi ad aprire alle aziende italiane, solo nel medio e lungo periodo si vedrà quanto delle parole di questi giorni si trasformerà in affari. Inoltre, bisogna considerare che tutte le città visitate dal presidente del Consiglio viaggiano ad un ritmo di sviluppo di oltre il dieci per cento annuo e quindi è molto probabile che chi doveva fare gli affari (come il gruppo Fiat) li ha già fatti da tempo senza aspettare il viaggio della speranza di Romano Prodi. Ma sono state le rivelazioni sul piano Rovati, pubblicate fra l’altro sul quotidiano di Confindustria, a trasformare, dal punto di vista politico, la missione del presidente del Consiglio da strategica a vera e propria via crucis. Ad ogni conferenza stampa infatti, nuovi risvolti dell’intricata vicenda mettevano in croce il capo del governo. Poche le domande dei giornalisti sull’esito degli incontri a Pechino, Shangai o Nanchino. Ovunque Prodi sia andato, il quesito postogli è stato sempre lo stesso: «Sapeva del piano di dismissione di Telecom?» Secondo Tronchetti Provera, Prodi sapeva e come. Tant’è vero che il suo braccio destro Angelo Rovati, il consigliere più ascoltato per le questioni economiche, aveva inviato alla presidenza di Telecom, su carta intestata di Palazzo Chigi, un vero e proprio piano di dismissione. Ma Prodi ha continuato a dire di non sapere e, pur di salvare la sua poltrona, conquistata per una manciata di voti, ha offerto la testa del suo consigliere ai suoi alleati, che per placarsi avevano bisogno di una vittima sacrificale.Tutto risolto quindi? Ma nemmeno per idea. Il caso Rovati, per l’importanza degli argomenti in gioco e per le conseguenze politiche, non può dirsi concluso senza un necessario passaggio in Parlamento. Capisco che dopo tanti giorni passati in uno Stato comunista, Prodi sia in deficit di democrazia ma sarà bene che egli recuperi in fretta questo gap perché il dibattito parlamentare non è fine a se stesso ma serve a far assumere al presidente del Consiglio le proprie responsabilità. Troppo facile infatti trincerarsi dietro la presunta ingenuità di Rovati, serve invece spiegare ai cittadini, prima che alla classe politica, come mai un governo che si proclama liberista, e che in nome di questa politica ha messo in difficoltà tassisti, farmacisti, notai e avvocati, si dimostra invece statalista quando in ballo ci sono gli interessi che contano. Che la fortuna del Professore, che sin qui ha caratterizzato tutti i passaggi politici degli ultimi mesi, sia giunta al capolinea? Un campanello d’allarme potrebbe venire dal fallimento degli obiettivi che Prodi si era posto con il suo viaggio in Cina: un prestigioso riconoscimento alle sue comprovate doti di sponsor principale dell’azienda Italia, ma anche un rinnovato consenso da parte degli industriali, rivelatisi determinanti per la vittoria elettorale, e ritenuti preziosi alleati alla vigilia di un difficile passaggio come quello della prossima finanziaria. Ma così non è andata e il risultato della “missione strategica” è stato a dir poco disastroso. In primo luogo, perché le rivelazioni sul piano Rovati hanno contribuito a rendere ancor più palesi le profonde contraddizioni che caratterizzano la maggioranza di centrosinistra (in tal senso, il dibattito parlamentare su Telecom potrebbe essere anche un occasione per spiegare all’opinione pubblica come Prodi intenda conciliare la posizione statalista di una parte della sua maggioranza, che fa riferimento a Prc, Verdi e Pdci, con quella presunta liberista dei Ds e Margherita); in secondo luogo, perché è sempre più evidente a tutti l’esistenza di un filo conduttore tra la notte elettorale dell’11 aprile 2006, quando Fassino e Prodi decisero di annunciare la tanto agognata vittoria salendo sul palco di piazza SS. Apostoli, e le vicende di questi giorni: quello della menzogna e dell’inganno.Fu una menzogna quella notte annunciare al popolo che l’Ulivo aveva vinto le elezioni, quando invece lo spoglio era ancora in corso e l’esito molto lontano dall’essere scontato; è stata una menzogna affermare ai giornalisti, al seguito della missione in Cina, di non essere al corrente di alcun piano di dismissione di Telecom, essendo questa un’azienda privata, quando poi è venuto fuori che Angelo Rovati, il tesoriere di Prodi, aveva persino inviato a Tronchetti Provera un “super pizzino”, come lo ha definito il segretario dei Radicali Daniele Capezzone, con tanto di “suggerimenti” su come fare per trasformare una azienda privata in una nuova Iri.Alla faccia della politica della trasparenza, tanto decantata in campagna elettorale da Prodi e dai suoi alleati.
Tratto da LA PADANIA [Data pubblicazione: 21/09/2006]

di GIACOMO STUCCHI

Il viaggio in Cina del presidente del Consiglio, fatto anche per ricambiare ad una parte degli industriali l’aiuto elettorale dello scorso aprile, non è andato come previsto soprattutto a causa dell’inevitabile intreccio con l’affaire del piano Rovati. Sul piano economico, al di là dei discorsi ufficiali sulla disponibilità dei cinesi ad aprire alle aziende italiane, solo nel medio e lungo periodo si vedrà quanto delle parole di questi giorni si trasformerà in affari. Inoltre, bisogna considerare che tutte le città visitate dal presidente del Consiglio viaggiano ad un ritmo di sviluppo di oltre il dieci per cento annuo e quindi è molto probabile che chi doveva fare gli affari (come il gruppo Fiat) li ha già fatti da tempo senza aspettare il viaggio della speranza di Romano Prodi. Ma sono state le rivelazioni sul piano Rovati, pubblicate fra l’altro sul quotidiano di Confindustria, a trasformare, dal punto di vista politico, la missione del presidente del Consiglio da strategica a vera e propria via crucis. Ad ogni conferenza stampa infatti, nuovi risvolti dell’intricata vicenda mettevano in croce il capo del governo. Poche le domande dei giornalisti sull’esito degli incontri a Pechino, Shangai o Nanchino. Ovunque Prodi sia andato, il quesito postogli è stato sempre lo stesso: «Sapeva del piano di dismissione di Telecom?» Secondo Tronchetti Provera, Prodi sapeva e come. Tant’è vero che il suo braccio destro Angelo Rovati, il consigliere più ascoltato per le questioni economiche, aveva inviato alla presidenza di Telecom, su carta intestata di Palazzo Chigi, un vero e proprio piano di dismissione. Ma Prodi ha continuato a dire di non sapere e, pur di salvare la sua poltrona, conquistata per una manciata di voti, ha offerto la testa del suo consigliere ai suoi alleati, che per placarsi avevano bisogno di una vittima sacrificale.Tutto risolto quindi? Ma nemmeno per idea. Il caso Rovati, per l’importanza degli argomenti in gioco e per le conseguenze politiche, non può dirsi concluso senza un necessario passaggio in Parlamento. Capisco che dopo tanti giorni passati in uno Stato comunista, Prodi sia in deficit di democrazia ma sarà bene che egli recuperi in fretta questo gap perché il dibattito parlamentare non è fine a se stesso ma serve a far assumere al presidente del Consiglio le proprie responsabilità. Troppo facile infatti trincerarsi dietro la presunta ingenuità di Rovati, serve invece spiegare ai cittadini, prima che alla classe politica, come mai un governo che si proclama liberista, e che in nome di questa politica ha messo in difficoltà tassisti, farmacisti, notai e avvocati, si dimostra invece statalista quando in ballo ci sono gli interessi che contano. Che la fortuna del Professore, che sin qui ha caratterizzato tutti i passaggi politici degli ultimi mesi, sia giunta al capolinea? Un campanello d’allarme potrebbe venire dal fallimento degli obiettivi che Prodi si era posto con il suo viaggio in Cina: un prestigioso riconoscimento alle sue comprovate doti di sponsor principale dell’azienda Italia, ma anche un rinnovato consenso da parte degli industriali, rivelatisi determinanti per la vittoria elettorale, e ritenuti preziosi alleati alla vigilia di un difficile passaggio come quello della prossima finanziaria. Ma così non è andata e il risultato della “missione strategica” è stato a dir poco disastroso. In primo luogo, perché le rivelazioni sul piano Rovati hanno contribuito a rendere ancor più palesi le profonde contraddizioni che caratterizzano la maggioranza di centrosinistra (in tal senso, il dibattito parlamentare su Telecom potrebbe essere anche un occasione per spiegare all’opinione pubblica come Prodi intenda conciliare la posizione statalista di una parte della sua maggioranza, che fa riferimento a Prc, Verdi e Pdci, con quella presunta liberista dei Ds e Margherita); in secondo luogo, perché è sempre più evidente a tutti l’esistenza di un filo conduttore tra la notte elettorale dell’11 aprile 2006, quando Fassino e Prodi decisero di annunciare la tanto agognata vittoria salendo sul palco di piazza SS. Apostoli, e le vicende di questi giorni: quello della menzogna e dell’inganno.Fu una menzogna quella notte annunciare al popolo che l’Ulivo aveva vinto le elezioni, quando invece lo spoglio era ancora in corso e l’esito molto lontano dall’essere scontato; è stata una menzogna affermare ai giornalisti, al seguito della missione in Cina, di non essere al corrente di alcun piano di dismissione di Telecom, essendo questa un’azienda privata, quando poi è venuto fuori che Angelo Rovati, il tesoriere di Prodi, aveva persino inviato a Tronchetti Provera un “super pizzino”, come lo ha definito il segretario dei Radicali Daniele Capezzone, con tanto di “suggerimenti” su come fare per trasformare una azienda privata in una nuova Iri.Alla faccia della politica della trasparenza, tanto decantata in campagna elettorale da Prodi e dai suoi alleati.
Tratto da LA PADANIA [Data pubblicazione: 21/09/2006]

lunedì, settembre 18, 2006

Un modello economico rimasto al Medioevo

di Giacomo Stucchi
Forse qualcuno spiegherà al presidente del Consiglio Romano Prodi, in missione in Cina con a seguito una rappresentanza dell’impresa italiana, che «superare le paure, rovesciare un paradima negativo e lavorare per una dinamica virtuosa, affinché sia l’Italia sia la Cina traggano beneficio dai nuovi rapporti industriali ed economici, in una prospettiva in cui anche i cinesi si avviino a rispettare le regole del commercio internazionale», più che un auspicio è una chimera. Perché? Ma perché chi opera e lavora sui mercati, sa perfettamente che è impossibile competere con chi agisce totalmente al di fuori delle regole.Il Professore però fa finta di niente e nel corso di uno dei suoi tanti incontri ufficiali, spiega che le nostre imprese e quelle cinesi debbono lavorare insieme per «una strategia complessiva e di lungo periodo, secondo un modello che deve essere il simbolo dei rapporti tra Italia e Cina», e ha ricordato come «sempre di più il XXI secolo si sta dimostrando il secolo della Cina».Ora, vorrei far presente al presidente del Consiglio che il sistema produttivo cinese si basa sulla totale violazione dei diritti umani, sulla condizione di segregazione di donne e bambini costretti a lavorare sino a diciotto ore al giorno in putridi locali, che definire fabbriche è un eufemismo, e sulla totale violazione delle più elementari regole del diritto internazionale. Ma c’è di più. Il governo cinese infatti, oltre a incentivare la produzione e l’esportazione in tutto il mondo di prodotti per lo più copiati da quelli occidentali, chiude un occhio sul criminale traffico internazionale di vite umane che è ormai in atto da tempo. In una sorta di delocalizzazione al contrario i mafiosi cinesi infatti non si accontentano più di vendere sui mercati occidentali la merce taroccata ma hanno messo su vere e proprie “prigioni”, sparse un po’ dappertutto, in Italia soprattutto nel Nordest, dove è più forte il mercato del tessile e del manifatturiero, dove migliaia di loro connazionali vengono fatti lavorare come schiavi per produrre borse, scarpe e quant’altro è possibile vendere a prezzi stracciati.Questi disgraziati, entrati clandestinamente nelle nostre città con il miraggio dell’integrazione, devono lavorare per estinguere il debito, contratto coi loro aguzzini per pagare il viaggio in Italia. Si parla di cifre sino a quattromila euro a persona, per cui con gli stipendi da fame degli operai cinesi è verosimile che questa gente prima di poter riscattare la propria libertà sia costretta a lavorare anche per quattro o cinque anni. Durante tutto questo periodo gli schiavi-operai, oltre ad essere clandestini, vivono in una condizione forse neppure paragonabile a quella delle nostre fabbriche del IX secolo e producono merce che, una volta venduta sotto costo nei negozi e nei mercati, finisce col mettere in ginocchio le imprese di casa nostra che invece pagano le tasse e lavorano nel rispetto delle leggi. Eppure Prodi cerca di ribaltare il «pessimismo» di questi anni per spiegare agli imprenditori italiani che la Cina, superati i timori per la delocalizzazione, offre «straordinarie possibilità alle nostre imprese e al nostro sistema economico nel suo complesso». Deve quindi partire una strategia complessiva che colga le opportunità e affronti «con determinazione anche problemi e criticità che pure esistono, come quello del pieno rispetto delle regole del commercio internazionale e della tutela della proprietà intellettuale».Insomma, quanti giri di parole in ossequio alla diplomazia per non dire ciò che tutto il mondo sa e cioè che lo straordinario sviluppo economico cinese è anche il risultato di un’altrettanto straordinaria regressione sul piano sociale che solo un governo comunista e dittatoriale, come quello di Pechino, poteva realizzare. E dire che il Professore rappresenta un governo di centrosinistra che, sulla carta, più di qualunque altro esecutivo dovrebbe avere a cuore la sorte delle categorie più deboli. Ma Prodi non se ne cura e, anzi, tra un drink e un pranzo in suo onore, non perde occasione per ricordare che se da un lato «giustamente le imprese si preoccupano della riduzione della quota italiana nel commercio mondiale», dall’altro si dice «convinto che essa non dipenda dalla straordinaria crescita cinese di questi anni», e spiega: «Un’impostazione del genere starebbe a significare che il successo cinese determini un simmetrico insuccesso italiano. Sono convinto invece del contrario. Inoltre, sono molte le opportunità che il mercato italiano offre per quelle imprese cinesi che non soltanto intendano vendere ma anche investire in Italia». E se lo dice lui, c’è da stare molto attenti.
Tratto da LA PADANIA [Data pubblicazione: 17/09/2006]

martedì, settembre 12, 2006

Le verità nascoste di Palazzo Chigi

di Giacomo Stucchi

Tra tutte le notizie interpretate a senso unico dagli organi di stampa che fiancheggiano il governo Prodi, la più grave per le sue conseguenze è quella sulle dichiarazioni rese da Berlusconi a Gubbio a proposito della missione dei nostri soldati in Libano. In primo luogo, perché ad essere in ballo è la sicurezza dei nostri militari; in secondo luogo, perché la sinistra non perde mai il vizio di distorcere la realtà e manipolarla a proprio piacimento. Così come è accaduto nella lunga primavera elettorale, che in pochi mesi ha visto i cittadini andare a votare prima per le Politiche e poi per il referendum, durante la quale sono state fornite all’opinione pubblica informazioni di parte, per tutto lo scorso mese di agosto editorialisti e osservatori schierati col centrosinistra si sono sforzati di accreditare l’ipotesi di un presunto accordo tra Berlusconi e Prodi su Unifil 2. Ora, pur non avendo informazioni dirette sui contenuti dei colloqui intercorsi tra i due e premesso che, come ha ricordato il nostro segretario federale Umberto Bossi, in qualche modo bisogna aiutare i popoli di quelle terre martoriate dall’odio e dalla guerra, non è irrilevante sottolineare come, almeno per quanto riguarda la Lega, non è mai esistito alcun accordo per mandare i nostri soldati in Libano. E questo perché a tutt’oggi né il presidente del Consiglio Prodi né il ministro degli Esteri D’Alema hanno chiarito i termini della missione. Non contribuisce a fare chiarezza in tal senso nemmeno la risoluzione 1701 delle Nazioni Unite che se da un lato affida ai libanesi, con i quali gli italiani collaborano, il compito di disarmare le milizie Hezbollah, dall’altro fa finta di ignorare che la situazione politica in quella terra è ancora troppo instabile per consentire il raggiungimento di un simile obiettivo, quanto meno nel medio periodo. E allora perché mandare in tutta fretta i nostri soldati nella terra dei Cedri? E come mai i movimenti pacifisti, no global e girotondini vari, in servizio permanente quando Berlusconi era a Palazzo Chigi, adesso assistono silenti a tale iniziativa? Vi siete mai chiesti cosa sarebbe accaduto se a prendere questa decisione fosse stato il precedente governo? Tutto il centrosinistra, da Rutelli a Diliberto, avrebbe colto l’occasione per accusare l’esecutivo di spregiudicatezza, incoscienza e quant’altro. Si sarebbe chiesto la convocazione straordinaria del Parlamento, dinanzi al quale si sarebbero recati in massa migliaia di pacifisti, o presunti tali, per chiedere le dimissioni del presidente del Consiglio, del ministro della Difesa e di tutti i vertici dell’esecutivo. Qualcuno avrebbe anche chiesto lo scioglimento delle Camere per attentato alla Costituzione. La verità è che in questa Italia strampalata, complice una parte del mondo dell’informazione, se l’Unione decide di impiegare i nostri militari in Libano allora si tratta di una spedizione di “importanza storica”, come l’ha definita il Professore, e diventa anche un evento mediatico; mentre se è un governo di centrodestra a decidere di mandare in missione di pace i soldati in Afghanistan, dove i nostri uomini stanno contribuendo alla costruzione di una democrazia in una area che fanatici religiosi vorrebbero come rifugio per il più grande criminale della storia recente, Bin Laden, allora tutto è sbagliato. Prodi e D’Alema sostengono di aver dato vita in questi mesi ad una nuova stagione in politica estera, segnando una netta discontinuità con quanto aveva fatto il precedente governo. A noi pare invece che i due si muovono su terreni minati consapevoli del fatto che da un momento all’altro tutto potrebbe saltare per aria; mi riferisco tanto alla presunta compattezza della maggioranza sulle iniziative del governo in politica estera quanto alle complicazioni che da qui ai prossimi mesi potrebbero venire fuori in Libano. Inoltre, le motivazioni sulla centralità dell’Unione europea e delle Nazioni Unite, che l’esecutivo sostiene di voler perseguire, e che lo differenzierebbero da Berlusconi e dalle sue presunte iniziative unilaterali (che in realtà non sono mai esistite, dal momento che ogni decisione è sempre stata intrapresa insieme agli alleati), sono una bufala grande come una casa. Più probabile invece che il Professore e il suo ministro degli Esteri, decisi in un primo tempo a giocare un ruolo da protagonisti in questa intrigata vicenda, abbiano adesso capito di poter restare con il cerino in mano. Del resto le stesse improvvide confessioni del presidente francese Chirac a Zapatero nel corso di un vertice (che a microfono erroneamente ritenuto spento ha tra l’altro detto “Hezbollah ha perso un po’ della propria forza, ma in tre, quattro o cinque mesi tutto potrebbe diventare pericoloso”), la dicono lunga sulla consapevolezza che i leader europei hanno di aver portato migliaia di uomini in una santabarbara che, ci auguriamo tutti, non esploda mai.

giovedì, settembre 07, 2006

Con questo esecutivo solo guai, la Lega non ha smesso di opporsi

di Giacomo Stucchi

I primi cento giorni di governo Prodi, festeggiati a Telese in occasione della festa dell’Udeur di Mastella, che per l’occasione ha fatto predisporre una megatorta, lasciano i cittadini molto perplessi.Sul piede di guerra le categorie interessate dai primi provvedimenti del governo; indignati molti elettori, anche di sinistra, per la scandalosa approvazione dell’indulto; deluse le imprese per le mancate promesse sulla riduzione del cuneo fiscale; perplessi i sindacati per il futuro dei lavoratori e delle loro pensioni; preoccupati i vertici delle forze armate per l’incolumità dei nostri soldati, spediti in Libano in tutta fretta dal governo per adempiere ad una pericolosa e complicata missione di pace; caos totale sui contenuti della prossima finanziaria; disorientamento nei mercati finanziari sul grado di fiducia da attribuire al nostro sistema economico. Questa è l’Italia dopo il ritorno di Romano Prodi a Palazzo Chigi. Per la verità almeno la metà dei cittadini che la scorsa primavera si sono recati alle urne, e che non hanno votato per l’Unione, si aspettavano questo risultato; inoltre a dirla lunga sul gradimento che il centrosinistra ha nell’opinione pubblica è anche la circostanza che in questi mesi estivi a riempire le pagine dei quotidiani sono state più le cronache delle feste di Silvio Berlusconi nella sua villa in Sardegna che non i programmi del governo. E’ vero che in estate anche la politica va in vacanza ma il fatto è che l’ex premier, piaccia o meno, è destinato a rimanere per molto tempo un protagonista assoluto della scena; ecco perché autorevoli editorialisti gli hanno chiesto di scendere di nuovo in campo per guidare un opposizione che, a loro parere, sino ad oggi è stata latitante.Ora, che Berlusconi resti il leader della Cdl lo ha detto il nostro segretario federale Umberto Bossi, precisando tra l’altro che il Carroccio intende continuare la sua battaglia per il federalismo all’interno delle istituzioni avendo al suo fianco l’ex presidente del Consiglio che si è dimostrato negli anni di governo l’interlocutore più affidabile. Ma quando si dice che in questi mesi di governo Prodi l’opposizione nel suo complesso non è esistita dissentiamo, almeno per quanto riguarda la Lega Nord. Se da un lato infatti nessuno nega che la sconfitta elettorale di aprile, soprattutto per la sua esiguità, ha lasciato l’amaro in bocca e provocato profonde riflessioni dall’altro è anche vero però che il Carroccio non ha mai smesso non solo di scendere in piazza per la rivendicazione di sacrosanti diritti, qual è per esempio quello di una maggiore sicurezza nelle città invase da criminali di ogni sorta, ma ha anche indicato agli alleati della Cdl la strada da seguire per continuare le battaglie di libertà intraprese negli anni scorsi. In tal senso è stato determinante il risultato del referendum, che peraltro ha visto scendere in campo soprattutto i militanti della Lega Nord, che ci ha obbligati a cambiare la strategia ma non l’obiettivo. Che rimane quello di dare maggiore autonomia alle Regioni attraverso il federalismo. Se è stato impossibile modificare la Costituzione, anche perché una controinformazione della sinistra ha confuso gli elettori sino a indurli a sottovalutare l’importanza della posta in gioco, vorrà dire che il Carroccio utilizzerà la legislazione vigente, ovvero la riforma del Titolo V voluta a suo tempo dal centrosinistra, per far si che Lombardia, Veneto e Piemonte abbiano quel federalismo che la stessa Costituzione in vigore prevede. Se poi questo servirà ad aprire la strada anche alle altre regioni ben venga, altrimenti amen. I popoli del Nord hanno atteso abbastanza per avere quel che gli spetta ma adesso la pazienza è giunta al capolinea e bisogna assolutamente invertire la rotta. Nel frattempo, però, c’è anche un governo bislacco da tenere a bada. Per far questo però, purtroppo, la Lega Nord da sola non basta e quindi in tal senso condividiamo gli appelli affinché un rinnovato impegno di tutta la Cdl dia luogo ad una opposizione più convinta e più determinata. Anche perché ogni giorno che passa con Prodi a Palazzo Chigi sono solo guai per i cittadini.

Tratto da LA PADANIA - [Data pubblicazione: 07/09/2006]