Giacomo Stucchi - Senatore Lega Nord Padania -

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lunedì, settembre 18, 2006

Un modello economico rimasto al Medioevo

di Giacomo Stucchi
Forse qualcuno spiegherà al presidente del Consiglio Romano Prodi, in missione in Cina con a seguito una rappresentanza dell’impresa italiana, che «superare le paure, rovesciare un paradima negativo e lavorare per una dinamica virtuosa, affinché sia l’Italia sia la Cina traggano beneficio dai nuovi rapporti industriali ed economici, in una prospettiva in cui anche i cinesi si avviino a rispettare le regole del commercio internazionale», più che un auspicio è una chimera. Perché? Ma perché chi opera e lavora sui mercati, sa perfettamente che è impossibile competere con chi agisce totalmente al di fuori delle regole.Il Professore però fa finta di niente e nel corso di uno dei suoi tanti incontri ufficiali, spiega che le nostre imprese e quelle cinesi debbono lavorare insieme per «una strategia complessiva e di lungo periodo, secondo un modello che deve essere il simbolo dei rapporti tra Italia e Cina», e ha ricordato come «sempre di più il XXI secolo si sta dimostrando il secolo della Cina».Ora, vorrei far presente al presidente del Consiglio che il sistema produttivo cinese si basa sulla totale violazione dei diritti umani, sulla condizione di segregazione di donne e bambini costretti a lavorare sino a diciotto ore al giorno in putridi locali, che definire fabbriche è un eufemismo, e sulla totale violazione delle più elementari regole del diritto internazionale. Ma c’è di più. Il governo cinese infatti, oltre a incentivare la produzione e l’esportazione in tutto il mondo di prodotti per lo più copiati da quelli occidentali, chiude un occhio sul criminale traffico internazionale di vite umane che è ormai in atto da tempo. In una sorta di delocalizzazione al contrario i mafiosi cinesi infatti non si accontentano più di vendere sui mercati occidentali la merce taroccata ma hanno messo su vere e proprie “prigioni”, sparse un po’ dappertutto, in Italia soprattutto nel Nordest, dove è più forte il mercato del tessile e del manifatturiero, dove migliaia di loro connazionali vengono fatti lavorare come schiavi per produrre borse, scarpe e quant’altro è possibile vendere a prezzi stracciati.Questi disgraziati, entrati clandestinamente nelle nostre città con il miraggio dell’integrazione, devono lavorare per estinguere il debito, contratto coi loro aguzzini per pagare il viaggio in Italia. Si parla di cifre sino a quattromila euro a persona, per cui con gli stipendi da fame degli operai cinesi è verosimile che questa gente prima di poter riscattare la propria libertà sia costretta a lavorare anche per quattro o cinque anni. Durante tutto questo periodo gli schiavi-operai, oltre ad essere clandestini, vivono in una condizione forse neppure paragonabile a quella delle nostre fabbriche del IX secolo e producono merce che, una volta venduta sotto costo nei negozi e nei mercati, finisce col mettere in ginocchio le imprese di casa nostra che invece pagano le tasse e lavorano nel rispetto delle leggi. Eppure Prodi cerca di ribaltare il «pessimismo» di questi anni per spiegare agli imprenditori italiani che la Cina, superati i timori per la delocalizzazione, offre «straordinarie possibilità alle nostre imprese e al nostro sistema economico nel suo complesso». Deve quindi partire una strategia complessiva che colga le opportunità e affronti «con determinazione anche problemi e criticità che pure esistono, come quello del pieno rispetto delle regole del commercio internazionale e della tutela della proprietà intellettuale».Insomma, quanti giri di parole in ossequio alla diplomazia per non dire ciò che tutto il mondo sa e cioè che lo straordinario sviluppo economico cinese è anche il risultato di un’altrettanto straordinaria regressione sul piano sociale che solo un governo comunista e dittatoriale, come quello di Pechino, poteva realizzare. E dire che il Professore rappresenta un governo di centrosinistra che, sulla carta, più di qualunque altro esecutivo dovrebbe avere a cuore la sorte delle categorie più deboli. Ma Prodi non se ne cura e, anzi, tra un drink e un pranzo in suo onore, non perde occasione per ricordare che se da un lato «giustamente le imprese si preoccupano della riduzione della quota italiana nel commercio mondiale», dall’altro si dice «convinto che essa non dipenda dalla straordinaria crescita cinese di questi anni», e spiega: «Un’impostazione del genere starebbe a significare che il successo cinese determini un simmetrico insuccesso italiano. Sono convinto invece del contrario. Inoltre, sono molte le opportunità che il mercato italiano offre per quelle imprese cinesi che non soltanto intendano vendere ma anche investire in Italia». E se lo dice lui, c’è da stare molto attenti.
Tratto da LA PADANIA [Data pubblicazione: 17/09/2006]