Giacomo Stucchi - Senatore Lega Nord Padania -

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giovedì, maggio 06, 2010

SE I POTERI VALGONO PIU' DELLE POLTRONE

di Giacomo Stucchi
“Ciò che accade a Milano è destinato nel breve a ripetersi a livello nazionale”. Era il 1987 quando per la prima volta sentii pronunciare queste parole da Umberto Bossi. Questo incipit non è casuale, infatti se c’è una capacità che va indiscutibilmente riconosciuta al Segretario della Lega Nord è quella di aver visto, già nella seconda metà degli anni ottanta, i primi sintomi della profonda crisi politica in cui versava la locomotiva lombarda, maldestramente celati dai fumi della “Milano da bere”, che suonarono alle sue orecchie come un campanello d’allarme per il futuro di tutto il Paese. Fu allora che il Senatur, ben consapevole della difficoltà estrema di condurre una battaglia vittoriosa contro la partitocrazia imperante senza poter contare su una nuova e condivisa proposta politica, che andasse oltre le classiche suddivisioni ideologiche, iniziò a parlare di federalismo. Quella strana parola, dal significato dimenticato e complesso, per risultare comprensibile a tutti venne sintetizzato da Bossi in persona nell’ormai celebre slogan “padroni a casa nostra”. Fu l’inizio di un lungo cammino durante il quale la condivisione del progetto leghista cresceva passo dopo passo. La gente del nord si dimostrò pronta a passare dalle ideologie agli ideali, dalla rinuncia alla partecipazione attiva e alla consapevolezza della necessità di difendere in prima persona i propri interessi. Il Segretario della Lega ripeteva fino allo sfinimento che ognuno doveva sentirsi libero di collocarsi politicamente nell’area che più gradiva ma, che, prioritariamente doveva battersi per liberare se stesso e la propria gente dal giogo di uno Stato centralista e assistenzialista, conquistando in questo modo consensi politici trasversali sia a destra che a sinistra; inoltre, l’intuizione di trasformare il Carroccio nel partito di riferimento dei popoli del nord (una sorta di CSU padana), che risultò facilitata proprio dalla matrice popolare e per nulla salottiera del movimento leghista, ne agevolò la penetrazione interclassista. Il successo odierno della Lega non è quindi nulla di casuale o di evanescente ma il risultato di un lavoro certosino compiuto da tante persone sotto la guida di un leader indiscusso. La classe dirigente del Carroccio si è forgiata nei vent’anni che sono trascorsi dal primo massiccio innesto nelle amministrazioni locali di esponenti eletti sotto il simbolo dell’Alberto da Giussano (elezioni regionali e comunali del 1990) saldandosi in un connubio inscindibile con il territorio di origine e riportando anche la politica locale ad una dimensione più semplice, più facilmente comprensibile dai cittadini e, soprattutto, orgogliosamente autonoma nelle decisioni da assumere, rivendicando sempre come obiettivo prioritario non la tutela degli interessi di bottega ma il soddisfacimento dei bisogni della propria comunità. In questi due decenni insomma la Lega, nel quasi completo disinteresse dei media più importanti, si è strutturata come un partito vero, tradizionale, aprendo sedi e sezioni nei Comuni dove gli altri le chiudevano perché ammaliati da un nuovo modo di fare politica, più moderno, più mediatico, ma anche più freddo e distante. Tutti questi fattori interni non sono però certamente sufficienti da soli a spiegare la crescita di consensi per il movimento guidato da Umberto Bossi. Serve anche analizzare cosa, dall’esterno, ha favorito questo risultato. Certamente il periodo storico che viviamo, caratterizzato da una forte crisi di credibilità delle istituzioni, ha indotto la maggior parte dei cittadini a guardare alla politica con maggiore pragmatismo. E’ probabile che ad accelerare questo processo sia anche intervenuta la crisi economica, che ha totalmente rimescolato le carte, sovvertendo quelle che sino a qualche anno fa erano considerate delle certezze. Una di queste, per esempio, era che il nord sarebbe stato, in qualsiasi condizione, la locomotiva economica ed industriale del Paese. Invece oggi i fatti dicono che la crisi morde soprattutto nei grandi distretti industriali padani, che faticano a restare a galla. Quando poi la crisi delle fabbriche si traduce in disoccupazione e questa, a sua volta, in malessere sociale per intere famiglie da sempre abituate a contare sul proprio lavoro e non sull’assistenzialismo dello Stato, ecco che la difesa dei propri interessi diventa prioritaria anche nella scelta elettorale. Ciò che sino a qualche anno fa non era ancora chiaro ai più, appare oggi non solo comprensibile ma anche condivisibile. Il federalismo, con il suo forte richiamo identitario e allo spirito comunitario, diventa quindi la via da seguire. Proprio per questo la futura azione politica della Lega Nord non potrà che puntare sulla concretizzazione di tutte quelle riforme che assegnando più competenze, risorse e responsabilità ai livelli locali, rendano lo Stato più leggero, più moderno e meno costoso. Per fare questo sarà importante il ruolo propulsivo dei neogovernatori, che dovranno sfilare al livello centrale una serie di competenze per poterle gestire con risultati migliori a livello regionale. Non parlo naturalmente solo dei presidenti leghisti o di quelli eletti anche grazie ai voti della Lega Nord, seppur ai primi tocchi indubbiamente il compito più duro, ma di tutti i governatori. A loro infatti toccherà accettare la sfida della responsabilità, l’onere del cambiamento, in altre parole giocare da protagonisti, assieme a governo e parlamento, la partita delle riforme. A questo proposito Umberto Bossi, saggiamente, ha più volte richiamato la necessità di procedere a riforme condivise, anche con le forze di opposizione, prima sul metodo e poi sui contenuti. Il pericolo che l’attuazione della legge delega sul federalismo fiscale oltre che di una auspicata riforma costituzionale non sortisca esiti positivi deve richiamare tutti alle proprie responsabilità. Ci sono a disposizione ben tre anni prima della fine della legislatura per poter compiere tutto questo lavoro e, questo lasso di tempo, come ricordato anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, è più che sufficiente per svolgerlo al meglio. Sul piano meramente politico quindi il Carroccio, mirando alla concretizzazione del suo progetto federalista, nonostante quanto asserito da avversari politici e non solo, non ha alcun interesse a condurre una battaglia interna alla maggioranza per qualche strapuntino in più, anzi, tutto il contrario. Conta poco infatti avere due o tre assessori regionali o Sindaci in più se poi non possono disporre di poteri reali. Puntare al grande obiettivo di lungo periodo non vuol dire però rinunciare a fare la propria parte nella contesa politica quotidiana. I temi sul tappeto sono e saranno parecchi e su ognuno la Lega, nei modi e nelle forme dovute, non mancherà di avanzare le proprie proposte a difesa degli interessi dei cittadini padani, come credo sia normale avvenga in un governo di coalizione, ritenendo giustamente di avere pari dignità rispetto al PDL. Sono certo però che il Presidente Berlusconi non avrà nulla da temere dalle proposte, dalle iniziative politiche e dal ruolo che svolgeranno a tutti i livelli gli uomini della Lega nel prossimo futuro perché, seppur dovessero rafforzarne il consenso elettorale, di riflesso manterranno la stabilità necessaria nella coalizione. Chi pensa il contrario si rilegga l’incipit di questa mia riflessione e guardi, oltre ai risultati ottenuti dall’azione di governo locale, a come si sono evoluti i consensi elettorali a Milano e in Lombardia dopo la sigla nel 2000 del nuovo accordo tra Bossi e Berlusconi: vi troverà la traccia del futuro scenario politico che attende il Paese.