Grandi manovre dietro il referendum
di Giacomo Stucchi
In attesa che si determinino altre negative conseguenze, sulla già confusa situazione politica, l’inizio della raccolta delle firme per il referendum abrogativo della legge elettorale (ma sarebbe più corretto dire modificativo) ha già avuto il suo primo deleterio risultato. I cittadini infatti hanno visto accostarsi ai banchetti dei referendari Fini e il ministro Parisi (che tra l’altro è anche membro del comitato promotore), la Prestigiacomo e il sindaco Cacciari e hanno cominciato a chiedersi che cosa sta succedendo? E’ credibile che personaggi politici, che nelle aule parlamentari o nei consessi civici locali se le cantano di santa ragione, diventino poi “alleati” nella battaglia referendaria? Di fatto è così, ma le ragioni non hanno niente a che vedere con un improvviso, quanto improbabile, rigurgito di buonismo. Il punto è che, come avevamo denunciato mesi fa sulle pagine de la Padania, sia nel centrodestra sia nel centrosinistra sono in atto le grandi manovre per cancellare le forze politiche che disturbano la restaurazione dell’ancienne regime. Perché è bene che i cittadini sappiano che se il referendum fosse celebrato (sono ancora tanti gli ostacoli, a cominciare dal parere della Corte Costituzionale) a farne le spese sarebbe anche un movimento, qual è quello della Lega Nord, che da vent’anni si batte per le riforme, in primis quella federalista. Ma c’è di più. E’ facile avere appeal sui cittadini quando si pone loro l’alternativa tra l’avere più o meno partiti, sarebbe come chiedergli se al ritorno dalle ferie preferiscono trovare la fila al casello dell’autostrada o la via sgombra, ed è ovvia la risposta. Chiunque direbbe che è meglio avere pochi partiti. Ma ciò che i promotori referendari, almeno da quel che si sente e si vede in questi primi giorni di raccolta delle firme, omettono di spiegare all’opinione pubblica è che attribuire il premio di maggioranza ai due maggiori partiti, anziché alle coalizioni (come avviene con l’attuale legge elettorale), significa obbligare per forza di cose gli stessi ad aggregare rappresentanze elettorali molto eterogenee tra loro. Altro che semplificazione del quadro politico, si avrebbe più confusione di prima e i grandi partiti, che inevitabilmente ne verrebbero fuori, farebbero tanti di quei compromessi con le forze più piccole che i congressi diventerebbero delle vere e proprie torri di Babele. Inoltre, se non si modificano i regolamenti parlamentari, finite le elezioni e incassati i seggi del premio di maggioranza, i grandi partiti (di maggioranza o di opposizione non fa differenza) si dividerebbero di nuovo in tanti gruppi, sia alla Camera sia al Senato, e quindi in Parlamento si avrebbero ancora delle coalizioni e non due sole forze politiche. Tutto questo è perfettamente chiaro e noto ai promotori referendari, così come ai leder politici che li fiancheggiano. Qualcuno ha detto che il referendum è la minaccia che costringe i partiti a trovare per forza di cose un accordo in Parlamento per fare una nuova legge elettorale che elimini le storture di quella vigente. Può darsi. A noi pare però che per il momento il referendum, più che a spingerli ad agire in tal senso, stia portando ad una politica artefatta. Sarà un caso ma il quesito referendario va proprio nella direzione auspicata dai fautori di taluni processi di aggregazione, già in atto nel centrosinistra, e che si vorrebbero attuare anche nel centrodestra, che sono più il frutto di una scelta elitaria che non la conseguenza di un vero processo democratico che viene dal basso. In altre parole, è possibile che alcuni leader politici, di entrambi gli schieramenti, vedano nel referendum il mezzo per realizzare i loro propositi di egemonia sulle altre forze politiche, trasformando peraltro uno strumento democratico (qual è quello del referendum) in un mezzuccio utile a risolvere meri interessi di bottega.
In attesa che si determinino altre negative conseguenze, sulla già confusa situazione politica, l’inizio della raccolta delle firme per il referendum abrogativo della legge elettorale (ma sarebbe più corretto dire modificativo) ha già avuto il suo primo deleterio risultato. I cittadini infatti hanno visto accostarsi ai banchetti dei referendari Fini e il ministro Parisi (che tra l’altro è anche membro del comitato promotore), la Prestigiacomo e il sindaco Cacciari e hanno cominciato a chiedersi che cosa sta succedendo? E’ credibile che personaggi politici, che nelle aule parlamentari o nei consessi civici locali se le cantano di santa ragione, diventino poi “alleati” nella battaglia referendaria? Di fatto è così, ma le ragioni non hanno niente a che vedere con un improvviso, quanto improbabile, rigurgito di buonismo. Il punto è che, come avevamo denunciato mesi fa sulle pagine de la Padania, sia nel centrodestra sia nel centrosinistra sono in atto le grandi manovre per cancellare le forze politiche che disturbano la restaurazione dell’ancienne regime. Perché è bene che i cittadini sappiano che se il referendum fosse celebrato (sono ancora tanti gli ostacoli, a cominciare dal parere della Corte Costituzionale) a farne le spese sarebbe anche un movimento, qual è quello della Lega Nord, che da vent’anni si batte per le riforme, in primis quella federalista. Ma c’è di più. E’ facile avere appeal sui cittadini quando si pone loro l’alternativa tra l’avere più o meno partiti, sarebbe come chiedergli se al ritorno dalle ferie preferiscono trovare la fila al casello dell’autostrada o la via sgombra, ed è ovvia la risposta. Chiunque direbbe che è meglio avere pochi partiti. Ma ciò che i promotori referendari, almeno da quel che si sente e si vede in questi primi giorni di raccolta delle firme, omettono di spiegare all’opinione pubblica è che attribuire il premio di maggioranza ai due maggiori partiti, anziché alle coalizioni (come avviene con l’attuale legge elettorale), significa obbligare per forza di cose gli stessi ad aggregare rappresentanze elettorali molto eterogenee tra loro. Altro che semplificazione del quadro politico, si avrebbe più confusione di prima e i grandi partiti, che inevitabilmente ne verrebbero fuori, farebbero tanti di quei compromessi con le forze più piccole che i congressi diventerebbero delle vere e proprie torri di Babele. Inoltre, se non si modificano i regolamenti parlamentari, finite le elezioni e incassati i seggi del premio di maggioranza, i grandi partiti (di maggioranza o di opposizione non fa differenza) si dividerebbero di nuovo in tanti gruppi, sia alla Camera sia al Senato, e quindi in Parlamento si avrebbero ancora delle coalizioni e non due sole forze politiche. Tutto questo è perfettamente chiaro e noto ai promotori referendari, così come ai leder politici che li fiancheggiano. Qualcuno ha detto che il referendum è la minaccia che costringe i partiti a trovare per forza di cose un accordo in Parlamento per fare una nuova legge elettorale che elimini le storture di quella vigente. Può darsi. A noi pare però che per il momento il referendum, più che a spingerli ad agire in tal senso, stia portando ad una politica artefatta. Sarà un caso ma il quesito referendario va proprio nella direzione auspicata dai fautori di taluni processi di aggregazione, già in atto nel centrosinistra, e che si vorrebbero attuare anche nel centrodestra, che sono più il frutto di una scelta elitaria che non la conseguenza di un vero processo democratico che viene dal basso. In altre parole, è possibile che alcuni leader politici, di entrambi gli schieramenti, vedano nel referendum il mezzo per realizzare i loro propositi di egemonia sulle altre forze politiche, trasformando peraltro uno strumento democratico (qual è quello del referendum) in un mezzuccio utile a risolvere meri interessi di bottega.
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